CAPITOLO 11
Aggiornamento: 30 apr 2021
DATA, 20/09/2264
In che strano mondo siamo scesi oggi. Un mondo che sembra una grande città della seconda metà del XIX secolo terrestre. Ci siamo dovuto abbigliare come gli abitanti e mentre Kirk sembra un capitano di vascello di quell’epoca e Spock un uomo dell’alta borghesia e McCoy un elegante dottore, io sembro un monello di strada, prendete come esempio Oliver Twist di Dickens.
A vedermi, chiunque m'abbia incontrato sulla nave, non ha trattenuto un sorrisetto divertito.
Bones dandomi una pacca sulle spalle mi ha detto che di certo non mi mancheranno le avventure. Kirk mi ha detto quale sarà il mio compito sul pianeta, ovvero, quello di girare per la città, osservare la gente e riuscire a socializzare, senza rivelare la mia vera identità e senza interferire.
Prevedendo che potrei essere coinvolta in qualche alterco, ha chiesto a Bones di aumentare la concentrazione di globuli rossi nel mio sangue, in modo che in caso di ferimento, il mio sangue risulti essere solamente di un rosso più scuro e non verde. Per le orecchie, il problema sono solo le medicazioni, non di certo la loro forma, come invece lo è per Spock, che dovrà usare un cappello, che gliele nasconda.
La città su cui siamo scesi sembra avere delle affinità con Londra. Vi è fumo proveniente dal carbon fossile usato per le attività industriali e civili. Vi è un contrasto marcato che distingue le varie classi sociali e vi è uno scorazzare incessante di mocciosi, vestiti poco più che con dei cenci, che chiedono l’elemosina o che si dedicano al furto o al vandalismo.
Ci siamo teletrasportarti in una zona della città dedita al commercio e ciò che colpisce è quanti bambini e ragazzi siano impiegati come forza lavoro: chi traina carretti, chi vende giornali, chi fa il garzone nei negozi e la loro età va dai sei forse anche cinque anni ai quattordici. I meglio vestiti sono i garzoni dei negozi, gli altri portano vestiti o troppo grandi o troppo piccoli per la loro età, spesso sono abiti pieni di buche o toppe e i loro visi, i loro cappelli, sono nello stesso stato degli abiti. A vederli il cuore si stringe: sono il volto della povertà e della fame.
Guardo i miei abiti e mi accorgo che rispetto ai loro sono da “buona famiglia”. Usciti dal replicatore dell’Enterprise sono puliti, senza buchi e senza toppe e poi io porto scarpe fin troppo linde, che quasi nessuno lì indossa, i ragazzi infatti, se non sono scalzi, portano zoccoli in legno o scarpe deformate dal lungo uso.
Mi sento a disagio, guardo il Capitano e lui mi fa cenno di avere fiducia, qualunque cosa accada, nei nostri vestiti sono stati inseriti dei registratori vocali e sottopelle McCoy ci ha inserito il chip per essere localizzati e teletrasportati immediatamente sulla neve in caso di pericolo. Guardo Spock, sembra il figlio modello di una famiglia altolocata e il suo ruolo infatti, è quello di essere il proprietario di un piccolo vascello attraccato al porto di questa città, che in questa sua vacanza, è accompagnato dal dottore e dal capitano. Loro hanno il compito di incontrare le autorità della città, di riuscire ad intrattenere rapporti diplomatici, per poi avvisare l’Ammiragliato della Flotta, per iniziare a mettere sotto protezione della Federazione questo pianeta, poiché fin troppo vicino al confine con l’Impero Klingon.
Io invece, dovrò mischiarmi tra la gente del popolo e più riuscirò a mimetizzarmi fra loro, più potrò portare dati utili sulla loro cultura e stile di vita.
La mia avventura ha inizio!
Come prima idea mi diressi verso la piazza principale della città: era proprio come Londra nel XIX secolo! Lo stile architettonico dei palazzi, il vestire, le fontane, le vie, le carrozze e le prime automobili! Cercai d’imitare l’atteggiamento scanzonato di un ragazzo di strada, osservando quelli che incontravo. Nella piazza principale vi era un mercato, mi confusi tra la folla, osservando i prodotti esposti e come le persone interagivano fra di loro. Vidi anche qualche ladruncolo mettere a segno qualche colpo, ma io feci finta di nulla, non ho avevo di problemi.
Mi spostai dal mercato e feci caso alle eleganti boutique di abbigliamento e ai signorili caffè e pasticcerie. Osservai l’alta società, osservai i suoi modi affettati, l’eleganza degli abiti e degli ambienti che frequentavano. Provai ad avvicinarmi ad una di quelle boutique, ma un garzone mi scostò dalla vetrina in malo modo.
«Spostati straccione che mi insudici il vetro della vetrina con quelle tue mani sporche!»
Mi allontanai e mi guardai le mani «Non ho le mani sporche!»
«Vattene ho detto! Non è posto per te, questo!» e poi lo sentii aggiungere rivolto ad un’elegante signora «Mi perdoni... (il traduttore tradusse come "madame" l'appellativo usato), prego entri.»
La face entrare nel negozio con un inchino, mentre a me diede un’occhiata bruciante. Rimasi in piedi, con un’espressione tra il deluso e il sorpreso, con i palmi aperti verso l’alto, tornai a guardarmi le mani e me le spolverai sul vestito, le mie mani sono pulite ripetei a me stessa, dando un’ultima occhiata corrucciata alla porta del negozio, ora chiusa.
M'incamminai quindi verso un caffè con pasticceria. Nella vetrina vi erano esposte ogni tipo di leccornie e il profumo di caffè si espandeva nei dintorni. Mi toccai le tasche dei pantaloni e della corta giacca, ma non trovai nemmeno un soldo. Tutto quel ben di dio, però mi aveva stuzzicato l’appetito, ma come fare per procurarmi il denaro? Mi allontanai con le mani in tasca, capo chino e scalciando i sassolini che trovavo sul marciapiede.
Poi, alzai lo sguardo verso il cielo, ma più che azzurro, il cielo era di colore grigio a causa dell'inquinamento. Decisi che avrei dovuto trovare un lavoretto, ma prima di un lavoro, avrei dovuto imparare a scrivere la loro lingua e a far di conto con la loro moneta. La cosa migliore da fare, sarebbe stata quella di frequentare qualche lezione e con quell'idea in testa, mi misi alla ricerca di una scuola.
Avevo calcolato che con la temperatura mite del pianeta e sfruttando il mio orecchio fine, mi sarebbe stato sufficiente appostarmi nelle vicinanze di una scuola elementare per apprendere quelle nozioni basi di cui avevo bisogno.
Facendomi condurre dal mio udito, arrivai nei pressi di quella che a tutti gli effetti era una scuola. La sua architettura e il vociare al suo interno, mi confermò trattarsi di una scuola elementare. Le finestre come avevo previsto erano aperte e la voce degli insegnanti si sentiva nitida nelle classi silenziose. Trovai un muretto, mi appoggiai ad esso e calandomi il berretto sugli occhi mi concentrai, prendendo appunti mentalmente, sapendo che il traduttore e il registratore mi avrebbero aiutato ad immagazzinare le informazioni e che Uhura sull’Enterprise che le riceveva, avrebbe dato loro un ordine ed una classificazione.
Lasciando lavorare metà cervello sulle nozioni scolastiche, l’altra metà iniziò ad elaborare le emozioni e le sensazioni accumulate fino a quel momento sul pianeta e percepii un certo disagio quando ripensai al trattamento ricevuto dal garzone della boutique. Mi sentii come se avessi avuto un dejavu, dove avevo già vissuto quell’esperienza di rifiuto? Mi vennero in mente due luoghi: Vulcano e l’Accademia della Flotta.
Un brivido mi passò lungo la schiena e mi ridestai di colpo. Se i bulletti dell’Accademia li avevo sistemati con le mani, facendo loro provare di quanta forza fossero dotati i vulcaniani, con Vulcano la ferita era ancora aperta ed era una ferita che comprendeva anche mio padre Salek, che aveva subito il mio stesso esilio. Sentii l’indignazione e la rabbia salire in me e fui felice, in quel momento, di non avere più le orecchie dei vulcaniani. Guardai verso le finestre della scuola e sentii il desiderio di entrare in una di quelle classi, per vedere come fossero le lezioni in aula. Avevo letto dell'istruzione nel XIX secolo nella vecchia Europa, ma ora volevo vederla in prima persona.
Andai verso il cancello, era chiuso, ma alla sua destra vi era attaccata una campanella con una corda e la tirai, la campanella suonò e poco dopo, una figura apparve sull’uscio della porta, dall’altra parte del cortile. Vedendomi mi urlò scocciato «Che vuoi?»
«Vorrei entrare a scuola.» risposi candidamente.
«Per far che?» mi rispose con tono sempre scocciato.
«Per imparare a leggere, scrivere e far di conto!» dicendolo alzai un sopracciglio, tanto mi pareva scontata la motivazione. A pensarci, che domanda era stata quella: per far che? Che cosa avrei mai voluto fare, alle porte di una scuola se non imparare? Se il tipo aveva voluto far dell’umorismo, proprio non lo avevo compreso.
Il tipo che mi aveva parlato dall’altra parte del cortile venne verso di me e vedendolo avvicinarsi vidi che era un signore anziano con una barba corta ma incolta e dall’andatura claudicante e curva. Quando venne ad aprirmi mi squadrò dall’alto in basso con piglio arcigno. I suoi occhi chiari erano diffidenti e il tono di voce con cui mi parlava, non smise mai di essere brusco «Quanti anni hai? Di certo sei abbastanza grande da aver superato da tempo l’età scolare.»
Risposi senza scompormi «Per imparare vi è forse un’ età massima oltre alla quale non è consentito formarsi?»
Mi guardò ancora più diffidente «Uhm… tu non me la racconti giusta… parli bene, ma dici di non saper né leggere né scrivere… Vieni dentro, ti farò parlare col preside. Deciderà lui cosa fare con te.»
Aprì del tutto il cancello, mi fece entrare, mentre dalle finestre si erano affacciati dei volti curiosi che avevano seguito la nostra conversazione, guardai senza timore verso quelle teste, che subito si ritrassero. La scuola all’interno era spoglia, con chiazze di umidità sui muri e con l’intonaco scrostato e in certi punti del tutto mancante.
Capii che l'edificio era lasciato a se stesso, forse per mancanza di fondi per poterlo sistemare, comunque, almeno in quel corridoio lungo, non mancava di certo la luce, grazie alle ampie vetrate che davano sul chiostro interno, qualcosa mi suggerì che la scuola si trovasse all’interno di un vecchio convento, almeno così ricordavo fossero i conventi nella storia terrestre, ma su quel mondo non sapevo se vi fosse o meno una religione, non avevo visto luoghi di culto o simboli religiosi, nel mio girovagare per la città.
Mi ridestai dai miei pensieri quando il mio accompagnatore disse «Siamo arrivati. Entro prima io. Tu aspettami qui fuori senza origliare.» Alzai un sopracciglio sorpresa, poi annuii e mi allontanai dalla porta, volgendo lo sguardo al chiostro che come il resto dell’edificio era lasciato all’incuria del tempo.
Provai a calcolare l’epoca in cui poteva essere stato costruito, facendo un parallelismo con le costruzioni similari presenti sulla Terra e, analizzando certi dettagli, potei presumere che se fosse stato costruito sulla Terra, sarebbe stato risalente al XIV - XV secolo, ma chissà sul quel pianeta a che epoca risaliva realmente, poteva essere anche solo del secolo precedente o più antico... se solo fosse stato tenuto meglio…
Poi, la porta si riaprì ed uscì il mio accompagnatore che mi si avvicinò e mi disse piano e in fretta «Puoi entrare, ma ricorda di aprire la bocca solo se ne sei autorizzato.» Mi aprì la porta ed entrai nell’ufficio del Preside, che come notai già dal primo sguardo, era nelle stesse condizioni di tutto ciò che fin’ora avevo visto.
Ma che posto era quello che trasudava d’incuria e povertà? Il preside dietro ad una scrivania in legno che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori, mi stava squadrando dalla testa ai piedi e per poco non trasalii quando alla sua destra, a portata di mano, vi era un vaso in rame, che conteneva tutta una serie di canne di varie spessore e lunghezza. Notando dove si era posato il mio sguardo mi rivolse la parola, il suo era un modo di fare ed un tono che rivelava la sua personalità collerica e spocchiosa, decisamente non la persona migliore con cui avere a che fare, capii immediatamente la validità, del consiglio del mio accompagnatore.
«Siediti su quella sedia!» me ne indicò una che stava di fronte alla sua scrivania, senza dire nulla mi accomodai sperando reggesse. «Vedo che hai notato le mie assistenti. Queste mi aiutano a tenere la disciplina. In questo istituto frequentato più da selvaggi che da ragazzini. Mancavi solo tu, con questo tuo fare... spocchioso! Che vorresti imparare? L’ abc? A far di conto? Ormai dovresti aver l’età per contribuire all’operatività di questa società! A che serve… ma, sei maschio o femmina?»
Quella domanda a bruciapelo mi lasciò per un attimo interdetta, ma tenendo fede al travestimento e al trucco, nonché al piano del Capitano, non ebbi dubbi a rispondere «Sono un ragazzo.» Stavo per aggiungere altre informazioni, ma in tempo mi trattenni, attendendo che fosse il preside a chiedermele e lo fece infatti, subito dopo «Bene, ragazzo. Allora dimmi anche il tuo nome, cognome, dove sei nato ecc. Su ragazzo, non ho tempo l’intera giornata per te, spicciati!»
«Mi chiamo Julio Livingston, ho diciannove anni e sono nato negli stati dell’Ovest.»
«Diciannove anni dici e non hai ancora un filo di barba? Qui da noi, ne avresti al massimo quattordici! Ma a quanto pare, le storie che dicono che quelli dell’Ovest non siano del tutto normali, sono vere. Togliti il berretto!» Senza replicare me lo tolsi.
I capelli mi erano stati tagliati come quelli di un ragazzo, ma erano stati tagliati in modo da nascondere le medicazioni dell’operazione alle orecchie, era ancora presto per togliere le bende ed era più sicuro, che fossero coperte dai capelli.
Il preside si alzò e con un frustino da cavallo, iniziò a girare intorno alla mia sedia. Lasciai che facesse la sua ispezione, mentre io tenevo lo sguardo fisso, di fronte, sulla sedia, dove prima lui era seduto. Con il manico del frustino mi scostò i capelli sulla nuca, poi scostò i capelli anche sul lato dell’orecchio destro rivelando le medicazioni «E queste cosa sono?»
«Ho dovuto sottopormi a delle cure mediche, a causa di un incidente, che ha coinvolto entrambe le orecchie.»
Mentre parlavo mi aveva scostato anche i capelli dell’orecchio sinistro ed aveva notato le stesse medicazioni. «Come ti sei procurato le ferite?»
«Una regolazione di conti, con dei nemici dell’Ovest.»
«Quindi sei scappato da casa! Sei venuto nella nostra città per trovare fortuna! Un altro perdigiorno nella nostra città!» Il tono era colmo di sdegno e repulsione.
«Non è corretto signore, definirmi un perdigiorno, dato che sono qui per impegnare il mio tempo ad imparare. Signore, io non ho una famiglia, ho lavorato come mozzo su un vascello privato, il mio capitano è in questa città per affari, ma dato che non so quanto si fermerà e non so se poi mi vorrà ancora con sé, io avrei desiderio d’istruirmi.»
«Senti, senti, un orfano che si guadagna da vivere facendo il mozzo. Commovente. Ma come mai il tuo capitano non ti prenderebbe più a bordo? Sei forse una testa calda? Un piantagrane? O piuttosto non fai il tuo dovere come dovresti?»
Ora, stava seduto fronte a me sulla scrivania, facendo penzolare la gamba destra, il cui tacco della scarpa, andava a strusciare lungo il legno già screpolato della scrivania, mentre l’altra sosteneva il peso del suo corpo. In una mano teneva il frustino e lo picchiettava sul palmo dell’altra. Il suo sguardo freddo mi scrutava, io lo guardavo ma evitavo di fissarlo in volto, piuttosto osservavo i movimenti del frustino. Poi un guizzo e mi trovai il frustino sotto al mento.
«Vai in classe, il custode ti porterà in classe terza B, ma ti avviso: sgarra dalle regole, crea problemi e le miei assistenti avranno il piacere di assaggiare il gusto della tua carne.»
«Signore, lei non mi ha detto quali siano le regole.» Un sorriso sinistro si fece largo sul suo volto.
«Sei furbo Julio, ma stai attento… Le regole sono: portare rispetto ai superiori, che saranno: il capoclasse, gli insegnati ed il custode Ownill che tu hai già conosciuto e chiamare “signore” il sottoscritto. Alla mattina le lezioni iniziano alle ore otto in punto. Non sono ammessi ritardi e finiscono alle tredici, con pausa di dieci minuti alle ore dieci, è tassativamente vietato lasciare l’aula se non per andare in bagno. Se sei beccato a gironzolare nel corridoio... sarà peggio per te.»
Fece un sorriso che fu più eloquente di mille parole «Pausa pranzo di un’ ora e ripresa delle lezioni alle ore quattordici in punto, fino alle diciassette. Per gli studenti che non hanno una casa dove andare, qui vi è possibilità di vitto e alloggio, ma per ripagare dell’ ospitalità si dovranno fare dei lavori a turno, come: lavare i pavimenti, la biancheria, i bagni, le camerate, i piatti e la sveglia sarà alle cinque in punto e l’ora di andare a dormire alle ventuno in punto. Se sarai bravo a portare a termine i tuoi compiti potrai avere dei premi, se non lo sarai, beh, ci saranno delle punizioni di vario livello, ma spero che tu non abbia mai modo di provarle.»
Il sorriso beffardo, gelido e sadico di quell’uomo mi fece deglutire a fatica e nuovamente mi chiesi in che posto fossi capitata. Comunque, annuii e aggiunsi senza far trapelare le mie preoccupazioni «Sì, signore farò del mio meglio, se fosse possibile vi chiederei anche di poter usufruire del vitto e dell’alloggio.»
«Bene Julio, bene… puoi andare in classe ora, ti farò accompagnare dal custode ed a fine lezioni, non dovrai fare altro che seguire il tuo capoclasse, perché tu veda la camerata della terza B e conoscere i dettagli della vita nel collegio “L’Ultima Speranza”.» Il ghigno e quel nome “L’Ultima Speranza” mi fece gelare il sangue. Poi, fece segno che era giunto il momento che io me ne andassi e chiamò il custode, gli disse di portarmi in classe e poi, credendo di non essere udito, aggiunse «Tenetelo d’occhio!»
La terza B era una classe mista, con una ventina di alunni, erano vestiti tutti uguali con una divisa grigia, di panno grezzo. L’unica differenza era che le ragazzine la portavano come vestito scamiciato sopra ad una camicetta di flanella, mentre i ragazzi la portavano come una divisa militare con una fila verticale di bottoni a destra ed a sinistra e i pantaloni lunghi, come ultimo accessorio i ragazzi avevano anche un berretto, che in quel momento alcuni avevano appoggiato sul banco.
L’ambiente di quella classe era la cosa più deprimente che io avessi mai visto: in un angolo della stanza stava una rudimentale stufa a legna, per scaldare l’ambiente in inverno, poi venivano i banchi in legno scuro quasi nero, dove sopra di essi vi erano un pennino, una boccetta per l’inchiostro un quaderno ed una lavagnetta. Poi, di fronte ai banchi stava la cattedra dell’insegnante, rialzata, anch’essa in legno scuro, a fianco ad essa una lavagna capovolgibile sul suo supporto in ferro. Sulla cattedra vi era una stecca che poteva fungere per diverse funzioni. Delle cartine geografiche stavano appese sul muro di fronte, le finestre davano sull'ingresso del collegio “L'ultima Speranza”.
Il custode mi diede una spinta e mi fece sostare quasi al centro dell'aula, facendo attirare tutti gli sguardi su di me.
«Professor Lucas questo è nuovo. È arrivato questa mattina e allogerà con noi.»
Il tono era sempre brusco e per nulla amichevole.
«Grazie signor Ownill. Ragazzi, date il benvenuto al vostro nuovo compagno.» Venti gole all’improvviso e all’unisono esclamarono «Benvenuto!»
«Come ti chiami e da dove vieni ragazzo?» Era la prima voce cortese che sentivo da quella mattina.
«Mi chiamo Julio ho diciannove anni, vengo dall’Ovest. Sono arrivato questa mattina nella vostra città, lavorando come mozzo in un vascello privato. Vorrei stabilirmi nella vostra città, per questo sono venuto qui, per imparare a leggere, scrivere, conoscere la vostra lingua e cultura.»
«Onorevole da parte tua. Sei un ragazzo in gamba, ma ora vai a sederti nella terza fila, posto a destra.» Presi posto e la mia prima lezione ebbe inizio.
Sentivo però che le cose non sarebbero filate lisce fino a fine giornata, poiché potevo udire dei commenti sommessi provenienti dalle ultime file. Nel banco stavo scomoda il legno duro e non affatto adatto alla mia età, mi faceva sentire ancora più alta, di quello che in realtà non fossi. Sentivo il disagio salire in me e ringraziai di non avere più le orecchie a punta, che ogni qual volta provavo imbarazzo diventavano di un verde marcato. Ringraziai anche McCoy che aveva aumentato la dose di sangue rosso nel mio corpo. Ci sarebbe solo mancato che gli zigomi mi fossero divenuti verdognoli!
Iniziai presto a chiedermi chi me l’avesse fatto fare di mettermi in quella situazione, ma pensandoci era la situazione migliore per studiare quel mondo e mi ripromisi di portare pazienza almeno ventiquattro ore e che comunque se le cose si fossero messe male, avrei sempre avuto la possibilità di farmi teletrasportare sull’Enterprise.
Gli eventi precipitarono in pausa pranzo, quando un piatto di minestra volò nella mia direzione, ma con un riflesso veloce, lo evitai, mandando il piatto a frantumarsi contro il muro. Ownill che era di guardia al refettorio, udendo il rumore, corse nella direzione della nostra tavolata. In pochi minuti minacciando, sbraitando, maledicendo e strattonando alcuni ragazzi, scoprì chi fosse stato l’autore del lancio e lo prese per un orecchio. Poi, prese anche me, per un braccio e ci trascinò dal preside.
Io assunsi un atteggiamento d’indifferenza non avevo colpe, al tipo non avevo fatto nulla, neanche sapevo come si chiamasse per nome, eppure, in modo del tutto inaspettato, il preside disse: «Per precauzione...» e senza aggiungere altro, mi afferrò la mano destra e assestò tre colpi sul palmo della mano, con il suo frustino. Poi, ripeté il procedimento anche con la sinistra. Non mi fece proprio male, ma mi intorpidì le dita e provai fastidio, comunque feci il possibile per non darlo a vedere.
«Non ti fa male? Quante ne hai prese sulle mani, per non sentire dolore? Aspetta, proviamo con questa...» Andò verso le canne, ne scelse una fine e flessibile, quella che secondo lui avrebbe dovuto causare maggior dolore e con forza la calò sui miei palmi e il dolore, questa volta lo sentii eccome, ma nuovamente preferii ignorarlo. Il preside parve soddisfatto di quella mia reazione. «Ho capito Julio, voi dell’Ovest avete bisogno di ruvidezza e va bene, fidati che l’avrai.» Capii al volo, che l’essere cadetto all’Accademia, rispetto al frequentare quel collegio, in un mondo del XIX secolo, L'Accademia era vivere nella bambagia!
All’ “Ultima Speranza” godevano nel vedere la sofferenza, non era una scuola: era un luogo sadico!
Mi promisi di uscirne il prima possibile e di denunciarli alle autorità avvelendomi delle registrazioni audio che stavo facendo e che sapevo Uhura stesse ascoltando. Mi chiesi se avesse già avvisato il Capitano… Ora però, non avrei voluto andarmene. Volevo continuare la mia esperienza, poiché, volevo vedere fino a che punto si sarebbe spinta la loro cattiveria, gusto per la violenza e per la sofferenza.
Non sapendo ancora per quanto fossi rimasta in quel luogo, decisi di comportarmi sempre più in aperta sfida alle loro regole. Ero entrata in quel luogo per imparare e ora sarei rimasta per trovare prove, sempre più certe dei loro crimini e nefandezze.
Determinata a portare a termine il mio piano, nelle ore successive, m’impegnai a violare una alla volta tutte le loro regole. Misi a soqquadro l’ordine di quel collegio e alcuni ragazzi, presero coraggio e si unirono a me. Diventai il loro capo e nelle seguenti dodici ore, accadde il finimondo!
Il problema fu riuscire a sopportare le punizioni corporali che divennero sempre più severe e anche sempre più crudeli. Alcuni miei amici, li sentii urlare dal dolore e tanto il loro dolore cresceva, tanto a me saliva la rabbia. Una rabbia selvaggia e incontrollabile che sfogai sopportando il dolore e sui corpi dei vari bulletti senza dignità e coraggio, che stavo scovando uno ad uno. Era da tempo che non provavo una tale liberazione emotiva e sebbene avessi ogni fibra del mio corpo dolorante per tutte le botte che davo e che ricevevo, il mio spirito lo sentivo sempre più leggero e libero.
Ma le ore passavano e la stanchezza mi stava sfiancando, il preside era passato ormai a mezzi che rasentavano la tortura e prima di crollare del tutto, inviai un messaggio di aiuto a Uhura, dicendo che facesse intervenire il Capitano, con la squadra che era sbarcata sul pianeta.
Mi stavo preparando a ricevere l’ennesima frustrata nella parte del corpo dove non batte il sole, quando accorse Ownill urlando che c’erano delle persone al cancello. Il preside vedendo che mi ero distratta e che avevo rilassato il corpo, non perse l’occasione e mi assestò l’ultimo colpo con tanta forza, che il dolore mi fece quasi perdere i sensi. Sperai che quelli alla porta fossero i miei amici, perché altrimenti non sarei riuscita a sopportare altre punizioni. Quella sua dannata frusta ad impulsi elettrici, ormai mi aveva indolenzito e reso insensibili alcune parti del corpo.
Sentii delle voci nel corridoio, sentii dei passi, poi altre voci «McCoy!» nella mia mente fu un grido, non so se lo fu anche nella voce, fatto sta che sentii la porta dell’ufficio spalancarsi di colpo, sentii due braccia familiari avvolgermi, ma involontariamente Spock aveva toccato il punto più dolorante e dovette rimettermi giù. Bones, mi passò sul corpo lo scanner e ciò che lesse nel tricorder gli infiammò gli occhi. Lo vidi rivolgersi a Spock e a Kirk e li vidi spingere fuori dalla stanza con forza sia Ownill che il preside i quali protestavano con veemenza.
McCoy mi guardò con pietà «Perché lo hai fatto?»
«Bones, sono dei criminali! Andavano smascherati, ora devono essere consegnati alla giustizia e questo posto dev’essere chiuso.» Mi aggrappai alla giacca di Bones «Ho registrato tutto Bones ho le prove di cosa sia questo posto, garantiscimi che verranno consegnati alla giustizia. Garantiscimelo Bones!»
Poi il buio mi avvolse e quando mi ridestai ero in infermeria sull’Enterprise, con Kirk che mi sorrideva e con Spock che mi guardava con la sua abitudinaria pacatezza «Oh, ecco che si sveglia la nostra bella addormentata.»
«Bones...» sussurrai
«Stai giù hai bisogno di riposo.»
«Spock… Capitano!»
«Giù T’Ile.» disse appoggiandomi una mano sulla spalla.
«Hai fatto un ottimo lavoro oggi! Quei criminali, grazie alle tue registrazioni sono stati assegnati alla giustizia, avranno tutta una serie di condanne da scontare.»
«E quei bambini sono stati trasferiti in un luogo più idoneo, hanno anche già trovato delle famiglie pronti ad adottarli, mentre altri, verranno seguiti da specialisti per essere aiutati a inserirsi nella società.» aggiunse Spock.
«Sono sollevata e felice di saperlo. Grazie a voi, almeno qualcuno di loro avrà nuovamente un padre e una madre… Personalmente, ho trovato nel dolore del corpo la liberazione del dolore dello spirito. A far saltare i denti a più di qualche bulletto là dentro, mi ha liberato e sono contenta di aver fatto superare il limite a quei criminali!» Affermai battendo un pugno sul lettino, con un residuo di rabbia.
«Questo prova ancora di più che le percosse non cambiano le idee, ma le rinforzano.»
«Vorrei ricordare Bones, che con T’Ile neanche tre giorni di cella e una degradazione hanno influito nel suo cambiamento.»
«Appunto Spock, punizioni! Le punizioni non servono, serve l’esempio!»
Guardai Bones e con maliziosa innocente «Va bene, vorrà dire che da questo momento, il dottor McCoy mi farà da padre!»
Chiusi gli occhi e potei sentire lo sguardo di Bones su di me, poi gli socchiusi e vidi lo scambio di sguardi fra di loro che mi fece sorridere e poi, non mi trattenni dal ridere quando Kirk, appoggiò una mano sulla spalle di Bones e burlandolo gli disse «Hai capito, papà!»
«T’Ile sei incorreggibile!»
«No, Bones, solamente un’adorabile peste.»
Li vidi tutti e tre alzare gli occhi al cielo, Spock fu il primo ad andarsene, seguito dal Capitano. Rimasti soli Bones si avvicinò al letto e mi chiese quasi in un sussurro «Come stai?»
«Mi riprenderò...»
Sapevo bene a cosa stava alludendo, per un certo dolore, per una certa ferita, ci sarebbe voluto molto tempo. Chiusi gli occhi e sentii McCoy allontanarsi da me. Mi sentii molto sola in quel momento e anche molto infelice, provai un contatto mentale, lo percepii appena. Lo chiamai “Spock? So che sono vrekasht, però vorrei che fossimo almeno amici...”
“Saremo ciò che siamo sempre stati.”
“Grazie Spock. Ti voglio bene.”
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