CAPITOLO 13
Aggiornamento: 30 apr 2021
DATA, 22/09/2264
Quando eravamo bambini e frequentavamo una tra le dieci migliori scuole elementari di ShiKahr, per aumentare la media dei voti e la competizione a dare il meglio di sé stessi, succedeva abbastanza spesso, che i fanciulli del primo anno, venissero posti innanzi ai migliori risultati raggiunti da coloro, che ora frequentavano il secondo od il terzo anno.
Lo sguardo con cui guardavo quelle tabelle divenne col passare del tempo, sempre più rassegnato. Il migliore lo avevo in casa. Era sempre il primo, il primo in ogni disciplina ed in ogni materia. Il suo quoziente intellettivo era già da genio.
Se a sei anni era stato maltrattato dai suoi coetanei, a tal punto che erano arrivati a fargli mangiare la sabbia, per provare se fosse davvero un vulcaniano, già a nove era rispettato, seppur tenuto a distanza. I suoi insegnanti però, erano sempre più soddisfatti dei risultati che otteneva e tale soddisfazione si trasmetteva anche ai nostri genitori.
Sarek ed Amanda erano fieri ed orgogliosi di Spock. Tanto che Sarek, quando Spock raggiunse l'età di tredici anni, si prodigò affinchè il figlio iniziasse a frequentare dei corsi propedeutici di programmazione e fisica quantistica presso l’Accademia delle Scienze.
Sarek non riusciva a nascondere uno scintillio negli occhi, ogni qual volta parlasse di Spock con qualcuno che gli chiedeva come andasse a scuola.
A Spock però, non è che interessasse poi molto, tutta quella soddisfazione che i genitori avevano per lui. Lui studiava perché gli piaceva, perché era curioso di sapere, come poteva funzionare un circuito quantico e come nascevano i pianeti, le stelle e le galassie.
Era inoltre un bambino sensibile che amava gli animali e voleva capire come poteva curarli o come far crescere un fiore, una pianta. Imparava per osservazione e con le nozioni offerte dal computer di casa e dall’ambiente scolastico, metteva in pratica ciò che imparava.
Sarek aveva dato al figlio più volte la possibilità di smontare e rimontare il computer, gli aveva fatto vedere come dovessero essere collegati i vari fili e circuiti e Spock non solo aveva smontato e rimontato alcune componenti, ma anche migliorato alcuni suoi processi lasciando stupito il padre, per l’abilità dimostrata.
Per un umano Spock era un bambino prodigio, esattamente come lo era stato Mozart per la musica. Ma per un vulcaniano, Spock era un bambino di cui andare soddisfatti e per i vulcaniani essere soddisfatti è come per gli umani essere nell’estasi e nell’euforia.
Ma torniamo a me. Come dicevo, col passare del tempo, guardando le tabelle di chi in prima era stato tra i migliori, capii con sempre maggiore chiarezza che fra me e Spock ci sarebbe stato un divario sempre più marcato.
Tanto lui, alla mia età, era andato bene, tanto io andavo male. In classe non riuscivo a prestare attenzione alla spiegazione e spesso la mia mente vagava per altri lidi. Mentre, gli altri bambini iniziavano ad imparare a non esprimere le proprie emozioni, io ero un libro aperto: noia, frustrazione, rabbia, gioia, entusiasmo, ecc. erano a portata di chiunque volgesse gli occhi su di me.
Gli insegnanti iniziarono ad allontanarmi dagli altri studenti, mettendomi in ultima fila e i miei coetanei iniziarono a prendermi di mira com’era successo con Spock.
Ma, a differenza di mio fratello, non avevo una reputazione da primo della classe da difendere e non riuscendo a nascondere ciò che provavo, non esitaii a difendermi con le mani. Ma, i puri vulcaniani erano più forti di me.
Se sulla Terra, ero sempre stata la più prestante, su Vulcano ero più debole dei miei coetanei ed in quelle zuffe avevo spesso la peggio, anche perché non erano quasi mai degli scontri uno ad uno, ma tre o quattro a uno.
Più di qualche volta tornai a casa con uno o entrambi gli occhi pesti, labbra spaccate, tunica lacera e segni di graffi sulle guance e su collo e braccia ed in aggiunta una qualche nota di demerito o un brutto voto. Erano specialmente, quest’ultimi a darmi più preoccupazioni, rispetto allo presentarmi a casa, in condizioni fisiche malconce.
Amanda che mi aspettava sul cancello di casa, era lei, per prima, che mi vedeva arrivare. Mi apriva il cancello e mettendosi in ginocchio per essere alla mia altezza, mi scrutava in volto. Un volto che spesso faceva trasparire rabbia.
Rabbia verso coloro che mi avevano schernita e rabbia per non riuscire a tenere loro testa, come invece riuscivo sulla Terra. Amanda vedeva quell’emozione nel mio sguardo, sebbene io non la guardassi negli occhi, mi abbracciava e mi accompagna in casa.
Seduto sul divano, in attesa del mio arrivo stava Sarek, il quale alzando un sopracciglio faceva capire di aver già compreso come fosse la situazione. Quindi si alzava e una volta vicino, iniziava a girarmi intorno, esaminandomi.
Non vi erano parole, bastavano gli sguardi per comunicare e bastava un suo gesto, perché mia madre aprisse la cartella e gli venisse consegnato il DiPad che collegato al computer, iniziasse a leggere il resoconto della giornata scolastica: materie seguite, percentuale di attenzione e di distrazione, voti e giudizi dell’insegnante per singola materia, comportamento generale ed eventuali note di demerito ed infine, valutazione complessiva del computer sulla giornata scolastica, con grafico a richiesta della media settimanale, mensile, trimestrale, semestrale ed annuale, confrontabile su ogni parametro con quella di un altro studente ed ovviamente, per me, quello studente era Spock.
Alcuni giorni erano più negativi di altri e altri erano leggermente più positivi. Ma l’andamento era talmente insoddisfacente, che Sarek spesso mi risparmiava la pena di vedere visualizzati i grafici con le valutazioni medie per periodo.
Riteneva che fosse un’inutile perdita di tempo rimarcare ciò che già si sapeva e su quello ero d’accordo con lui. Se si volesse fare un parallelismo tra la scuola vulcaniana e quella terrestre, si potrebbe dire che Spock in prima elementare aveva una media di 9,5/10 mentre io l’avevo tra il 3 ed il 4.
Amanda pensò di suggerire a Sarek di farmi cambiare scuola di iscrivermi in una meno pretenziosa, ma Sarek non volle prendere in considerazione, tale opzione, poiché secondo lui, frequentare la stessa scuola di mio fratello, mi avrebbe portato a migliorare prima o poi.
Ma il mio problema era l’incostanza. La mia attenzione andava a picchi, come l’interesse per una materia o disciplina. Seguivo il mio istinto, prendevo le decisioni in base all'umore del momento, capitava che scappassi di casa, lo faceva anche Spock, ma in Spock vi era una logica che se anche Sarek non l’accettava almeno la poteva comprendere, ma non con me. Io se scappavo lo facevo per puro piacere. Nessuna logica, solo istinto ed emozioni.
Come accadde verso i dodici anni, età in cui i vulcaniani diventano adulti, quando presi in “prestito”, a quello che per un umano sarebbe uno zio, un veicolo simile ad una moto terra aria terrestre, con la differenza che questa non solo raggiungeva una velocità di 250/300 km/h, ma anche si alzava dal suolo di una ventina di metri, invece che il solito metro/metro e mezzo.
Era parcheggiata fuori casa, lo zio ci stava facendo visita ed era impegnato in una conversazione con i nostri genitori, alla quale partecipava anche Spock. Io me ne sarei dovuta stare sulla mia scrivania a studiare, ma nella mia mente c’era solo l’immagine di quello strano veicolo parcheggiato a poca distanza.
Su Vulcano le misure di sicurezza sono sempre state considerate illogiche, in quanto un Vulcaniano non ruberebbe mai, non userebbe mai nemmeno qualcosa di un altro senza chiederne il permesso, sarebbe una gravissima mancanza di rispetto. Ma a me, il proibito è sempre piaciuto, il gusto del rischio, dell'andare oltre, dello scoprire cosa accade dopo…
Non mi trattenni, ignorare quell’impulso di pura curiosità era inutile e così sgattaiolai fuori dalla porta che dava sul giardino e correndo il più veloce possibile, badando a non far troppo rumore, per non attirare l'attenzione, arrivai al veicolo. Il computer era in standby, lo sfiorai e la moto alzò le sospensioni. Pareva una creatura viva. Vibrava ma il motore era talmente silenzioso, che nessuno, se non io che avevo le mani su di essa, potevo sapere che era pronta per partire.
Cercai il casco, lo trovai sotto al sedile, me lo infilai ed esso aderì perfettamente alla mia testa, poi, premetti il pulsante di partenza sul computer e la moto, partì. Rimasi affascinata, quando sul visore del casco vidi apparire la mappa, con gli ostacoli anche da evitare e la velocità. Capii distinto che per accelerare dovevo far scorrere la manopola di sinistra in avanti e per rallentare quella di destra indietro, mentre per fermarmi di colpo, entrambe verso di me e per azionare la massima potenza entrambe in avanti.
Quella moto rispondeva ai comandi con una reazione istantanea, soprattutto se la velocità aumentava. Decisi di uscire dal centro della città e di andare verso una zona più deserta, dove avrei potuto sfogare l’anima di quella bestiola sulla quale stavo seduta. La zona che scelsi era perfetta! Poteva fungere da circuito ovale con qualche ostacolo qua e là da superare.
Mi inumidii le labbra, sentii l’adrenalina scorrere in me e socchiudendo gli occhi esclamai «VIA!» La moto partì, in pochi secondi raggiunse i 100 km/h ed in altrettanti pochi secondi i 200 km/h e poi i 280. Teneva perfettamente la migliore traiettoria per le curve e nel rettilineo, anche superare gli ostacoli, grazie al casco che segnalava la loro prossimità, era una cosa da ragazzi e più prendevo mano, giro dopo giro e più aumentavo il gusto del rischio di evitarli all’ultimo momento a quasi 300 km/h.
Quando mi stancai di quel circuito mi divertii a tornare in città, sfrecciando tra la folla, che si scostava impaurita, mentre io coperta dal casco me la ridevo, a vedere quegli impassibili vulcaniani esprimere emozioni di paura, di spavento e di sdegno. Arrivai nei pressi dell'Accademia delle Scienze, quando i fari abbaglianti delle Guardie della Sicurezza mi illuminarono a giorno, intimandomi di scendere, di togliermi il casco e di rimanere ferma con le mani in alto.
Mi sentii in trappola, ma non volevo dargliela loro vinta e quindi mi guardai attorno e quando trovai la via di uscita, presi la mia decisione. Ai loro ordini di scendere ecc. ecc. Risposi con un’impennata della moto, accelerando di colpo usando una passerella dell’Accademia come trampolino per superare il blocco delle Guardie e… volai!
Passai sopra le loro teste ad un paio di metri d’altezza e poi iniziarono a sparare, ma la mia moto andava più veloce dei loro ridicoli veicoli e poi la mia era sinuosa, s’infilava ovunque e grazie al casco non sbattevo contro nessuno neppure a forte velocità, mentre loro, beh loro… diciamo che erano in una altra situazione.
La mia corsa però, finì quando fui a cinquecento metri da casa. Una navetta con un raggio traente fermò all’improvviso la mia corsa, mentre un raggio del teletrasporto mi avvolse e mi fece ricomparire nella sede della Guardia di Sicurezza. Mi trovavo sulla loro piattaforma del teletrasporto, avevo ancora indosso il casco e c’erano cinque guardie con il phaser puntato contro di me, pronte almeno a stordirmi nel caso avessi fatto qualche mossa sbagliata.
Mi limitai ad alzare le braccia, due di loro, mi presero per le braccia e mi fecero scendere dalla piattaforma, poi sempre tenendo puntato il phaser, una guardia dietro di me e l’altra davanti m’intimarono di toglierlo e con prudenza me lo tolsi. La loro fu un’espressione di stupore quando videro che ero una ragazzina vulcaniana.
Rinfoderarono i phaser ad un cenno del loro capo, che era la Guardia che mi stava davanti e che ora stava dicendo ad uno dei suoi di prendermi il casco. A quel punto esclamai «No, ridammi il casco non è mio!» Il capo delle guardie mi fissò senza far apparire emozione, ma con un gesto veloce, riuscì a prendermi entrambi i polsi ed a mettermi le manette «Ehi, che fai!» esclamai inorridita. «È solo per precauzione, su seguimi.»
Non avendo altra scelta lo seguii in un ufficio non molto grande, spoglio dove c’era solamente una scrivania con sopra uno schermo di computer, la sedia dove si sedette il capo delle Guardie e davanti alla scrivania una sedia sulla quale mi fece accomodare. Alla sua destra, vi era anche una pianta abbastanza alta da toccare quasi il soffitto. Attese che smette si di guardarmi intorno e poi disse «Come ti chiami, quanti anni hai e dove abiti?»
«Cos’è un interrogatorio? Perché dovrei darti i miei dati?» Lo stavo sfidando alla maniera vulcaniana di sfidare una persona, ma era pur sempre una sfida. Il suo atteggiamento rimase indifferente «Le tracce quantiche del teletrasporto hanno rilevato che hai undici anni...»
«Sbagliato! Non ho undici anni ne ho undici, sei mesi e tredici giorni.»
«Quindi ne hai quasi dodici. Bene, tra poco tempo sarai adulta, questo mi darà modo di farti riflettere su ciò che hai fatto questo pomeriggio e sulle conseguenze che avrà per te.» Alzò un sopracciglio e capii ci stava trovando gusto.
La cosa mi dette fastidio, ma cercai di non darlo a vedere.
Lo vidi avvicinarsi allo schermo del computer e poi leggere «Oggi alle quindici e trentadue ci è stato segnalato il furto di un veicolo presso la casa dell'ambasciatore Sarek, il codice d’indentificazione del veicolo è uguale a quello su cui ti abbiamo trovato che guidavi tu.»
S'interruppe e mi guardò, poi riprese «Sempre l’ambasciatore Sarek denuncia la scomparsa di sua figlia T’Ile di anni undici, ne fa descrizione. Oh, qui vi è anche la foto e sì, direi che sei proprio tu.»
Si spostò dal computer, si rilassò sullo schienale della sua poltrona e con le mani incrociate sulla scrivania, iniziò a guardarmi.
Io rimasi impassibile o almeno è quello che spero, visto che mi sento la rabbia ribollire in corpo. Ma lui non fa altro che guardarmi «Sai, non ho ancora avvisato tuo padre che sei qui da noi, perché voglio farti capire quante contravvenzioni hai accomunati in un pomeriggio.»
Si riavvicinò allo schermo e iniziò a leggere con tono piatto «Furto di un veicolo, guida senza patente, guida pericolosa, superamento dei limiti di velocità, danni alla passerella dell’Accademia, ferimento di cinque agenti e ferimento accidentale di quindici civili e danneggiamento di tre veicoli della Guardia di Sicurezza. Interessante, calcolando il tutto in modo approssimativo, direi che avrai un paio di mesi di cella da farti oltre a praticare attività utili per la nostra società. Inoltre, l’ambasciatore Sarek dovrà risarcire l’Accademia delle Scienze, per i danni arrecati alla passerella di circa mille crediti, più altri settecento per i danni alle navette, senza calcolare le somme per coloro che sono rimasti coinvolti, sia il personale della Guardia, sia i civili. No, non penso che tuo padre quando lo avviseremo di tutto ciò, sarà soddisfatto dei tuoi risultati.»
Chinai il capo, sentii le lacrime che m’inumidivano gli occhi, ma cercai di ricacciarle indietro. Non volevo piangere, non in quel luogo e non davanti a quella persona. Sentivo che avevo paura di mio padre, percepivo già il suo sguardo freddo che si posava su di me.
Un brivido mi percorse il corpo e quel brivido non lo potei nascondere.
«Paura di tuo padre? Fa così paura l’ambasciatore? Eppure, non hai provato paura a salire su quella moto ed a fare ciò che hai fatto. Sto leggendo il profilo psicologico che è rimasto memorizzato nel casco, sai è già arrivato, è tutto qui nel mio computer e attenderò che siano arrivato l’ambasciatore, per leggerlo.»
Sentii la derisone nel tono di voce di quell’uomo e sentii, vidi le mie mani stringersi a pugno, mentre la mascella si stringeva, fino a farmi male e gli occhi li chiusi, li chiusi perché quell’uomo non vedesse e io non vedessi lui, mentre cercavo di trattanere la mia rabbia, rabbia che non avrei potuto sfogare su nulla, in quella stanza spoglia.
E fu in quel momento che sentii il trillo dell’intercom e una voce annunciare: «L’ambasciatore Sarek è arrivato, lo faccio accomodare nel suo ufficio.»
Sentii la voce di mio padre e il suo tono di cordiale pacatezza reso però più profondo, mi fece comprendere istantaneamente quanto fosse irato. Solo chi era della famiglia, avrebbe potuto accorgersene e poi, entrò nella stanza e me lo trovai di fronte.
Notai in quel momento quanto tutto in lui emanasse autorità e rispetto. Capii, in quel momento perché tutti lo trattassero con grande reverenza e rispetto. Provai un acuto senso di vergogna, distolsi lo sguardo dalla sua persona e lo rivolsi alla scrivania posta di fronte a me.
Il capo fece portare un’altra sedia, ma Sarek preferì rimanere in piedi a fianco a me, con una mano che notai come pericolosamente appoggiata sullo schienale della mia sedia. Alzai un poco e timidamente, gli occhi verso di lui, e notai l’espressione perfettamente inespressiva del suo volto, poi guardai la sua mano e la sua mano stringeva con forza lo schienale della mia sedia, se stava stringendo lo schienale pensando di stringere il mio collo, allora per me non ci sarebbero state molte speranze.
Come se avesse avvertito i miei pensieri, rilassò la mano e lasciò la presa dallo schienale e abbassò il suo sguardo verso di me, non fu affatto una bella idea quella di rialzarlo a mia volta e d’incrociare quindi i suoi occhi.
Ciò che vidi, fu quanto di più gelido mi fossi mai aspettata di vedere. Deglutii a fatica e di tutto ciò che disse dopo il capo delle Guardie non sentii più neanche una parola. Almeno fino a quando non disse «Il profilo psicologico che abbiamo estratto dalla memoria del casco è quello di una ragazzina che sa ciò che fa e sa ciò che vuole, molto emotiva e poco logica, un profilo più adatto a qualche teppistello adolescenziale umano, che ad una ragazzina vulcaniana.»
Il capo delle Guardie guardò mio padre quasi scusandosi di quelle parole, Sarek non battè ciglio, non si scompose disse solo «T’Ile ha vissuto molti anni sulla Terra, l’abbiamo adottata io e mia moglie quando sono deceduti i suoi genitori. Non si è ancora ambientata.»
«Capisco, beh questo spiega il profilo psicologico è un’umana dotata di orecchie vulcaniane. Forse ambasciatore, sarebbe più logico toglierle, non è molto onerevole il modo in cui le porta.»
Ebbi come la sensazione che una lama fosse penetrata parte a parte del mio corpo, chinai il capo come se il pavimento avesse improvvisamente acquistato chissà quale interesse artistico, sentii come ovattata e lontana la voce di mio padre dire «Mi dica per favore quanto dovrà rimanere in cella e quanto e dove vi dovrò versare il risarcimento.»
«Appena avremo le fatture di coloro che sono stati feriti nell’inseguimento, verrete contattato dal nostro ufficio legale e provvederete al pagamento. Per quanto riguarda la ragazzina, direi che un mese di cella più un altro mese di lavori di pubblica utilità le saranno utili per crescere. Ambasciatore le vorrei fare una domanda personale, alla quale potrebbe anche non rispondermi...»
«Va bene, mi dica.»
«Si conoscono i genitori naturali?»
«Sì, suo padre era mio fratello.»
Alzai la testa per vedere il volto di quell’uomo ed era il volto di una persona che pareva aver appena ricevuto la scarica paralizzante di un phaser. Mi venne da ridere, ma quando feci per portarmi una mano alla bocca e vidi le manette, il sorriso mi sparì dalle labbra e dovetti mordermi un labbro per non trovarmi a piangere, invece che a ridere.
Il mio movimento sulla sedia e il rumore metallico delle manette, attrassero l’attenzione dei due uomini e il capo si alzò dalla sedia e mi fece alzare, ora io e mio padre ci trovammo una di fronte all’altro. I suoi occhi non erano più così freddi, ma carichi di un muto rimprovero, in cui vi erano compresi il sentimento di vergogna e di disonore.
Quello scambio durò appena un secondo eppure, poteva essere trascorso un minuto o forse più. Poi, mio padre uscì e fui condotta in una cella olografica. La cella olografica, ricreava il paesaggio di un giardino di meditazione, non si vedevano le pareti eppure c’erano, ma ogni movimento che si faceva in essa, faceva cambiare la prospettiva del giardino, dando un’idea d’infinito, facendo perdere la cognizione della posizione e delle distanze.
Almeno ero da sola e ci sarei rimasta, dato che vi era una sola cuccetta. Su di essa mi stesi ed affondai la testa nel cuscino. Non so quanto tempo trascorse, sicuramente ore, visto che il paesaggio era cambiato e ora il giardino era immerso nel buio, erano state ricreate le stelle, ma non si vedeva T’Khut.
Scesi dalla brandina e toccai la sabbia ed i sassolini bianchi, era davvero realizzata bene come olografia dato che potevo sentire la sabbia ed i sassolini che tenevo fra le mani, provai a lanciarli, ma non li vidi atterrare da nessuna parte. Tornai a distendermi sulla cuccetta e mi addormentai.
Fu un mese insignificante, lo ricordo vagamente, non ricordo nemmeno se vennero a farmi visita o meno. Ricordo la noia quella sì e ricordo che prendevo a calci quella finta sabbia rossa e quei finti sassolini bianchi.
Ricordo la frustrazione di vedere un paesaggio che per quanto tu lo colpissi, non si scomponeva mai, rimaneva sempre ordinato, come i vulcaniani che se anche insultati non si scomponevano in nessuna reazione. Gli unici momenti che scandivano il passare delle ore in quella monotonia era l’ora dei pasti, della doccia sonica e dell’ora d’aria.
Dopo quel mese ci fu il mese di pubblica utilità e fu in quel periodo che tentai due volte la fuga, ma senza successo, aggravai solo la mia situazione, prolungando di un’altra settimana la mia permanenza in quel luogo.
I lavori di pubblica utilità erano del tipo: sistemare le aiuole della piazza antistante la sede della Guardia di Sicurezza, aiutare qualcuno delle Guardie che era in difficoltà con il computer, specie se esso presentava dei guasti, aggiustarlo solo però, se sapevo esattamente dove mettere le mani, pulire i veicoli della Guardia, tenere pulita la sede sia nei luoghi comuni sia quelli privati, come gli uffici e nella settimana aggiuntiva, per punizione, dovetti pulire anche i bagni e le loro camere.
Quando anche la settimana aggiuntiva, arrivò al termine, mi trasferirono a casa con il teletrasporto, facendomi comparire davanti all’ingresso di casa mia. Ringraziai, di aver potuto indossare i miei abiti civili, sarebbe stato imbarazzante comparire di fronte alla porta, con quella tuta monocolore grigia dei prigionieri.
Varcai la soglia, il cancello era aperto e attraversai il giardino per entrare in casa, poi entrai e sebbene la mia famiglia fosse all’interno, nessuno rispose al mio saluto, capendo la situazione feci per andarmene in camera mia, ma Spock mi fermò «Ferma, quella non è più anche camera tua, ma solo mia. Camera tua è stata spostata nella stanza degli ospiti.» Rimasi delusa, sentii nuovamente quella sensazione della lama fredda, che mi trafiggeva, ma cercai di non darlo a vedere e risposi «Va bene, grazie.»
Non aggiunsi altro, tutto nella mia mente era molto chiaro, dopo due mesi ed una settimana di assenza, loro avevano deciso che non dovevo interferire con l’ordine famigliare e con la preparazione di Spock e forse Spock avrebbe dovuto ignorarmi.
Ebbi conferma di ciò, quando agli eventi mondani a cui i miei genitori erano invitati, veniva chiesto solo a Spock di essere aggiunto all’invito.
Quando andai all’Accademia, dalle reazioni che avevano le persone quando parlavo della mia famiglia, capii che i nostri genitori, per molti anni avevano taciuto della mia esistenza ad amici e conoscenti. Con tristezza mi resi conto che molte persone, pensavano e certuni credo lo pensino ancora, che Spock sia figlio unico.
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