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CAPITOLO 37

DATA, 22/04/2265



È un mondo così freddo e gelido scaldare le rocce coi phaser è come accendere un fiammifero, il tepore è quasi inconsistente. Due phaser sono già del tutto scarichi e anche gli ultimi due non sono in migliori condizioni.


I comunicatori funzionano molto debolmente a causa del gelo. Se l’Enterprise non si sbriga a riportarci a bordo, di noi, tra poche ore, non saranno rimasti che ghiaccioli.


Le nostre disavventure iniziarono dal momento in cui ci avvicinammo all’orbita di questo pianeta: dapprima guasti sporadici, come ai replicatori o al turboascensore che si bloccavano, poi sempre più gravi, come al teletrasporto o al sistema di aerazione.


Avevamo scoperto che la causa proveniva da questo pianeta e ci siamo fatti teletrasportare sulla superficie. Avevamo iniziato a cercare la fonte di energia che interferiva sui sistemi dell'Enterprise, ma non trovammo nulla. Avevamo provato quindi, a metterci in contatto con l’Enterprise ma il segnale debole, era disturbato da continue interferenze. Sulu, Chekov io e due uomini della sicurezza, eravamo bloccati sul pianeta, ormai da ore. Avevamo sciolto la neve per bere qualcosa di caldo, ma eravamo allo stremo delle forze. Il nostro peggior nemico era il sonno, quindi cercammo di tenerci svegli. Kevin della sicurezza aveva già i primi sintomi da congelamento. Gli dovemmo togliere gli stivali e avvolgerlo nelle poche coperte che avevamo a disposizione. Mi sentivo impotente, non sapevo cosa fare, per salvare la vita ai miei ragazzi.


Dissi a Chekov di raccontare qualche storiella divertente sulla Russia, in modo da tenere alto il morale. Più saremmo riusciti, a non pensare alla nostra situazione e, più possibilità avremo avuto di sopravvivere.


«Come va con il comunicatore?» mi chiede Sulu.

«Forse sono riuscita a potenziarlo, ma con questo freddo, non durerà a lungo, i circuiti si stanno congelando. Vedrete, riusciremo ad andarcene. Lo farò funzionare e l’Enterprise ci riporterà a bordo.»


In realtà non credevo alle mie stesse parole, ma arrendermi o arrabbiarmi non avrebbe risolto i nostri problemi e quindi, sebbene il dolore sempre più intenso a mani e piedi, continuai a lavorare, fingendo di non avere freddo, per non togliere alla mia squadra nemmeno una coperta. Per alleviare la sofferenza, decisi di scaldare alcune rocce, col rischio però, di scaricare definitivamente anche gli ultimi due phaser.


«Si sono scaricati del tutto?» chiese Chekov.

«No, ma ciò che è rimasto non sarà sufficiente per scaldarci, la prossima volta.»

«Moriremo?» chiese Kevin, le cui condizioni stavano peggiorando vistosamente.

«No, ce la faremo tutti quanti. Provo a chiamare l’Enterprise.»


Invece, non uscii dal riparo tra le rocce per chiamare l’Enterprise, ma per cercare la fonte di energia che generava le interferenze. Se sulla nave erano rimasti senza energia, non sarebbero sopravvissuti molto più a lungo di noi. Avevo con me il tricorder, al quale avevo apportato delle modifiche, come al comunicatore e con l’uso combinato dei due, stavo cercando di localizzare la fonte di energia. Ma, era un’impresa disperata. Il vento alzava mulinelli di neve e ghiaccio, facendo scendere vertiginosamente la temperatura. La visibilità in quella tormenta era ridotta a pochi centimetri e più volte caddi ferendomi mani e viso. Poi, finalmente, sul tricorder comparve un segnale. Prima debole e poi sempre più intenso. Con rinnovata speranza cercai di camminare più in fretta, incurante del dolore che sentivo in ogni parte del mio corpo, provai anche a correre.


Il segnale ben presto andò fuori scala, poi all’improvviso cessò. Imprecando cercai di far funzionare nuovamente il tricorder, ma quello mi accorsi che andava bene, poi controllai il comunicatore e con delusione, dovetti chiuderlo e riporlo nella cintura. Mi era rimasto solo il tricorder e forse non sarebbe stato sufficiente. Lo ripuntai comunque verso le ultime coordinate, da cui avevo rilevato l’energia e ripresi il cammino.


 

Fu un volo di parecchi metri, fortuna atterrai su qualcosa di morbido. Sembrava essere una caverna alta una ventina di metri, completamente di ghiaccio. Lì dentro, la temperatura era un po' più calda e sebbene a fatica, mi alzai e cominciai a percorrerla. La fonte di energia riprese vita e fu con mio grandissimo stupore che mi accorsi che non si trattava di energia naturale, ma artificiale.


Possibile che là sotto, vi fosse un computer?


Percorsi tutta la caverna in direzione nord-est e dopo circa due chilometri vidi un enorme computer alto quasi quanto la caverna: ne rimasi affascinata. Lo ammirai in tutta la sua imponenza. Doveva essere una macchina eccezionale e di chissà quanti secoli!


Cercai di decifrare alcune scritte, ma la lingua era sconosciuta e così feci dei tentativi di mettermi in contatto con l’Enterprise.


«Enterprise, qui T’Ile. Rispondete... Enterprise, mi sentite? Rispondete... Enterprise?»


Ma, non rispose nessuno.

Mi presi quindi il tempo di studiare quel mastodontico computer e scoprii da dove traeva energia per funzionare. Decisa a interrompere la sua alimentazione estrassi il phaser e feci fuoco, ma non accadde nulla.


Esasperata, decisi di provare ad arrampicarmi su di esso e di provare a manometterlo manualmente. Con le ossa doloranti e con una insensibilità diffusa, fu una scalata lunga e difficile. Giunta sulla sua sommità, con quella poca potenza rimasta nel phaser, cercai di fondere e chiudere la bocca, da cui fuoriusciva la sua devastante energia e in parte ci riuscii, ma a quel punto, iniziò a vibrare violentemente, come se fosse pronto ad esplodere e con celerità, dovetti sbrigarmi a fuggire.


Pezzi di ghiaccio iniziarono a cadere dal soffitto della caverna. Maledii il non poter mettermi in contatto con l’Enterprise e maledii il non poter correre più velocemente. Quando poi arrivai al punto in cui ero caduta, mi sentii definitivamente in trappola. Una parete di ghiaccio, quasi completamente liscia mi si parava davanti e io non avevo più forze. L’unica cosa che potei fare, fu di nascondermi sotto alla pelliccia, sulla quale avevo avuto la fortuna di cadere e di sperare che qualcuno da lassù, captasse i miei segnali vitali.


L’esplosione del computer avvenne in un boato assordante, la cui onda d’urto fece spazzar via l’intera caverna. Mi aggrappai con forza alla pelliccia e tenendomi sotto di essa, mi sentii scaraventare dall’altra parte della caverna. Poi una grandine di ghiaccio e neve precipitò sopra e attorno a me.


Emergere da là sotto, per non soffocare fu una vera lotta, fortuna che era tutto materiale friabile e neanche tanto spesso, pertanto ci misi relativamente poco a riemergere in superficie.


Fu con mia grande sorpresa che notai come il vento fosse cessato e che l’aria fosse più mite. Mi liberai dalla neve e controllando di avere ancora il tricorder al collo e che funzionasse, lo puntai verso sud, alla ricerca di segni di vita umani, ma non rilevò nulla.

Iniziai a ripetermi che si trattava di un guasto o che io mi ero allontanata troppo, perché li potesse rilevare.


Con un’andatura claudicante, con la sola forza della speranza, mi misi in cammino. Continuavo a tenere puntato il tricorder, ma non vi era alcun segno di vita e la disperazione si fece largo tra i miei pensieri e lacrime di rabbia iniziarono a scendermi lungo il viso. Ad un certo punto non ce la feci più e mi abbandonai spalle contro una pietra, sulla neve. Come ultima speranza, misi il tricorder sul segnale automatico di emergenza e chiusi gli occhi, sfinita.



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